domenica 29 luglio 2012

Managua, Nicaragua. Andata e ritorno



Questa è la cronaca di un viaggio ai confini del mondo. Del nostro mondo. Un mondo dove il 20 per cento degli esseri umani usa e consuma l'80 per cento delle risorse e le spreca. E dove il resto degli esseri umani cerca di vivere riciclando la spazzatura dei primi. I bambini sono preziosi, hanno le mani piccole: la notte lavorano più degli altri, a recuperare i rifiuti provenienti dai quartieri dei ricchi, dove i camion lavorano la notte perché di giorno le loro strade siano pulite e profumate. Dei bambini si occupano in pochi, a pochi sta a cuore il loro destino. I più li prendono a calci, o li sfruttano anche sessualmente: sono i più deboli di questa catena, i più sofferenti, i veri dimenticati. 



Managua, Discarica di Acajualinca - Il magazzino per lo stoccaggio della carta
sara elter


Il Mercato Orientale di Managua è una zona di cui si sente parlare molto. E’ un mercato sconfinato, che occupa un intero quartiere. La gente ci vive, là dentro, i più poveri dei poveri cercano di stare in piedi e cercare un rifugio. Si trova di tutto, anche quello che non si può immaginare. I prezzi sono bassi, molto più bassi che negli altri mercati. Addentrarsi da soli all’interno, che è un vero labirinto di banchetti e baracche, è pericoloso per chiunque. Questa è la cronaca di una giornata al suo interno insieme ai volontari della Quincho Barrilete, associazione che si occupa dei bambini di strada a Managua.


Managua, discarica di Acajualinca
bambino raccoglitore di rifiuti

Il giro è iniziato in una strada qualunque. Insieme a noi, tre educatori tra cui un medico e un donnone di nome Majra; tre esseri umani che, un giorno sì ed uno no, fanno il lungo giro che abbiamo fatto oggi, distribuendo pane, latte, moltissimi abbracci, medicine e soprattutto preservativi. Loro, alla partenza, ci avevano avvertito di levarci tutto ciò che avevamo di prezioso addosso, svuotarci le tasche, non portarci nulla. Io ho disubbidito: per le sigarette. Così mi sono sparite, tra furibonde discussioni dei ragazzi che se le contendevano ringhiando, nel giro di mezzo minuto.
Il giro è iniziato in una strada come tante. Davanti ad un basso fabbricato con la scritta bianca <Chiesa evangelista>, una ventina di bambini stava per terra, coricata sui cartoni. Bambini, cuccioli d'uomo che vivono come animali, sniffando colla che - l'hanno spiegato proprio loro - costa due cordoba ogni barattolo e serve bene per dimenticare, ma brucia i polmoni e le cellule cerebrali. Bambini che rubano per mangiare, che saltellavano felici soltanto perché lunedì li portano tutti al mare. Bambini che tutti prendono a calci, bambini di cui gli adulti abusano per pochi soldi, per un pugno di cibo.




Managua, discarica:
bambino raccoglie rifiuti
Il giro è continuato in posti dove nessun occidentale è mai entrato. La calle (via) de la muerte: la chiamano così perché è tanto stretta che si può passare solo uno per volta e così, se ti vogliono ammazzare per derubarti, lo fanno facilmente senza che tu possa scappare; la strada delle prostitute bambine, sedute in fila davanti a cubicoli capaci di contenere solo un letto e separati dalla strada da una tenda fatta di sacchi neri della spazzatura. Intanto che i tre operatori parlavano, curavano, distribuivano preservativi - <che non sono sufficienti comunque> - mi ha bisbigliato una di loro - un'altra è arrivata con un bambino al collo: avrà avuto un anno, riccioli delicati e grandi occhi scuri. Ho fatto i complimenti al bambino, ma lei non ha avuto nessun indugio, nessun minimo ripensamento: <Te lo regalo> mi ha detto decisa, sporgendomelo.







La fine del percorso è l'apoteosi di questa strada diretta alla fine del mondo, all'ultima catena di questo universo che si sporge in bilico su un baratro infernale, che solo ad immaginare non si può capire: il basurero. L'immondezzaio. Se il mercato orientale rappresenta zona proibita a qualsiasi occidentale, se ci sono delle zone al suo interno dove neppure i nicaraguensi osano entrare, l'immondezzaio del mercato è il buco nero dei buchi neri. 
Montagne di spazzatura sono inframmezzate dalle bancarelle che vendono residui ancora commestibili: la gente va portando rifiuti, e torna portandone via altri. In cima alla catasta più grande, un gruppo di adulti scava con le mani. Anche loro sono attaccati ad un barattolo di colla. Si avvicinano, ci stringono la mano, ci guardano negli occhi, senza parlare: non capiscono cosa facciamo lì. Seriamente. 



Managua, discarica: madre e figlio cercano tra i rifiuti>.


Non si avverte aggressività, nonostante sia l'ora in cui i drogati sono più che saturi dagli effetti della pega, la colla, sniffata. Cosa facciamo lì, chiedono, in mezzo ai dimenticati tra i dimenticati, perché? Vogliono sapere, vedere, parlare: <Ci viene mai nessuno qui> dice il più vecchio, brontolando sottovoce.I tre angeli custodi si incamminano decisi verso un rudere mezzo bruciato, che spunta in mezzo a quella montagna di pattume. Cerco di non guardare intorno a me, mi fisso sulle loro schiene, provo a non pestare almeno i liquami in cui annegano i rifiuti marci. Li seguo dentro quella costruzione mezza distrutta, nelle stanze coi muri anneriti: la casita (la casetta), dove vivono come topi nascosti ragazzi e ragazze più grandi, col cervello ormai bruciato dagli effetti della colla. Majra, Cesar e il medico avevano avvisato prima che lì poteva essere veramente pericoloso. Talmente pericoloso che anche se la mattina <sono ancora lucidi>, come dicono loro, non è possibile prevedere cosa potrebbe accadere. Entriamo, quindi, a nostro rischio. Majra mi lancia un ultimo sguardo per vedere se io, unica altra donna del gruppo, sono veramente convinta di entrare. Dentro quella stanza cavernosa e buia, ripulita appena dai rifiuti che la circondano, intravvedo anche due neonati, uno dei quali gattona indifferente e completamente nudo su quel pavimento putrido. La ragazza che si siede accanto a me è incinta e fra pochi giorni partorisce. Metterà al mondo la sua creatura in quella sorta di corte dei miracoli, al buio, in mezzo ai topi, sfatta dalla colla e senza l'aiuto di nessuno. 





 Un'altra piange. Racconta che ieri hanno arrestato suo "marito". Ogni tanto infatti la polizia fa una retata per accontentare e calmare le proteste dei negozianti del mercato, vittime delle ruberie di questi poveri bambini. <L'hanno arrestato anche se non aveva fatto nulla - mi dice la ragazza al mio fianco - perché ci arrestano senza che abbiamo fatto nulla?>, chiede a Majra, che non sa rispondere e le accarezza il viso, le chiede della gravidanza, le raccomanda di non drogarsi e di mangiare e lei dice <sì, perché ora sono una madre>.

Usciamo da quell’inferno di corsa: ci siamo stati dalle 9 alle 14, senza bere e senza mangiare. Mi tormenta una fame accecante ma anche la nausea. Tutto il viaggio nell’altro mondo l’ho vissuto con gli occhi sgranati, senza più riuscire a dire nemmeno una parola, né di dolore, né di indignazione, né di rabbia. Mayra, uscendo, mi ha detto ciò che per lei forse è un complimento: "Nessun occidentale che ci ha accompagnato è mai riuscito a fare tutto il giro che facciamo noi ogni giorno". Io ce l'ho fatta, vivendo come in un film, come trasportata su un tappeto volante... però quelle erano persone, erano rifiuti veri, era carne marcia, erano avvoltoi e mucche da latte al pascolo... erano soprattutto bambini e bambine che a 12 anni sanno già cos'è un preservativo e come si usa. 




mercoledì 4 luglio 2012

CI VOGLIONO SCARPE BUONE: LA FESTA

La carovana dei sans papiers arriva al Valentino per la festa di conclusione, dopo una settimana di permanenza: l'indomani partiranno tutti alla volta dell'europarlamento di Strasburgo a denunciare l'ipocrisia degli stati europei che spendono tutte le risorse nei rimpatri e non nell'integrazione e nel diritto di ogni essere umano ad una vita degna. Appellandosi alla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 chiedono libertà di circolazione e di cittadinanza per tutte/i




Il video con le interviste pubblicato da Il Fatto Quotidiano poco prima della partenza per la Val di Susa




 Senza altra arma se non le loro mani e i loro tamburi, hanno marciato a piedi attraverso l'Europa, da Bruxelles a Torino. E senza altra arma se non la loro speranza e la solidarietà nella lotta, la loro festa non è costata nulla, se non la viva partecipazione dei presenti.



Foto ricordo col gruppo di capoeira presente ogni domenica sul prato e che si è subito infilato, con grande entusiasmo, nella festa: Africa e Brasile, stesso cuore, stesso ritmo dell'Europa che sa stare al passo dei tempi...

L'amitié nous fait vivre dois foix
(L'amicizia ci fa vivere due volte)



Vendita magliette e scambio di informazioni con altri migranti presenti


E si suona,





                     Si balla,





Si ride da cader per terra...


domenica 1 luglio 2012

CI VOGLIONO SCARPE BUONE: marcia europea dei sans papiers e dei migranti a Torino, unica tappa italiana


CI VOGLIONO SCARPE BUONE

La marcia europea dei Sans Papiers e dei migranti 

Torino, unica tappa in Italia


Nina ci vogliono scarpe buone
e gambe belle Lucia
Nina ci vogliono scarpe buone
pane e fortuna e così sia
Ma soprattutto ci vuole coraggio
a trascinare le nostre suole
da una terra che ci odia
ad un'altra che non ci vuole
Ivano Fossati, Pane e coraggio

Torino, 26 giugno 2012 - La marche des Sans Papiers est arrivé

Certo che ci vogliono scarpe buone, anche se non tutti le hanno. Ci vogliono per attraversare a piedi ben sei frontiere d’Europa, quelle tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania, Svizzera e Italia: la Marcia Europea dei Sans Papiers e dei migranti è giunta a Torino, unica tappa italiana, che li accoglie con accaldata indifferenza. Non sono in molti: 200 marciatori di 28 diverse nazionalità, tutti rigorosamente in pettorina gialla sulla quale campeggia la scritta: Libertà di circolazione e di residenza. Italiani presenti ad accoglierli: pochini. In compenso pare facciano paura alle autorità comunali, perché il corteo è preceduto da uno spiegamento di poliziotti in tenuta di guerra, armati persino di mitragliette.
La voce dei sans papiers
Loro, i sans papiers, hanno suole consumate, sorridono nel loro presentarsi stanchi e impolverati; si siedono a riposare un poco ai margini della via; vendono magliette e il loro giornale autoprodotto (lavoixdessanspapiers.eu.org). 
Ballano al ritmo di molti tamburi
Ballano al ritmo di molti tamburi (rafforzati dalla torinese presenza della banda dei percussionisti in marcia, i Pink), cercano di parlare con le persone che incrociano che, per la maggior parte, nemmeno si fermano: gli italiani hanno i loro problemi, a cui pensare. 
Chi sono, cosa fanno, cosa vogliono i sans papiers, i senza documenti, che arrivano a piedi dal Belgio? Perché nessuno li vuole ascoltare? Non appaiono in televisione, nessun giornalista è presente al corteo né, in seguito, all’assemblea pubblica. Nessun media ne parla, né bene, né male. Semplicemente per l’opinione pubblica nemmeno esistono.

IL MOVIMENTO DEI SANS PAPIERS: CHI SONO
Eppure la vicenda dei Sans Papiers in Francia non è un episodio isolato e inascoltato nel mare della cronaca della disperazione dei migranti. Il 18 marzo del 1996, 300 immigrati africani, tra cui quasi la metà bambini, occuparono la chiesa di Saint Ambroise nel centro di Parigi. Arrivavano tutti da paesi in guerra - Mali, Guinea, Senegal, Costa d’Avorio, Mauritania e Togo – ed erano divenuti improvvisamente irregolari dopo anni di residenza in Francia: la commissione che doveva rinnovare il loro status di rifugiati, aveva deciso di negarglielo. Molti genitori si ritrovarono così clandestini con figli neonati considerati cittadini francesi perché lì erano nati. Gli adulti iniziarono un lungo e durissimo sciopero della fame per chiedere l’immediata regolarizzazione di tutti. Lo sciopero scosse le coscienze portando in piazza decine di migliaia di francesi e coinvolgendo anche molti intellettuali, che fecero sentire la loro autorevole voce. Da allora non hanno mai smesso di lottare e organizzarsi per farsi sentire: “Noi siamo un movimento pacifico che lotta per il riconoscimento del diritto di tutti a vivere un’esistenza degna”. dicono nel loro giornale.
Martedì 26 giugno: il corteo arriva a Porta Nuova

MARCIARE E OCCUPARE
“Marciare è il nostro modo di lottare abituale: a Parigi ogni mercoledì, un corteo di Sans Papiers attraversa a piedi le vie della capitale verso un obiettivo preciso: prefettura, ministero, Assemblea Nazionale, Senato, consiglio di Stato, consolato, sedi dei partiti, dei sindacati patronali, centri di detenzione amministrativa. Sono anni che noi manifestiamo così, collettivamente, pacificamente, instancabilmente, spiegando le nostre bandiere, i nostri slogan, i nostri canti, la nostra musica ritmata e i nostri tamburi e la nostra domanda di regolarizzazione. E’ così che occupiamo lo spazio pubblico e catturiamo l’attenzione dei passanti, per spingerli alla riflessione. E sarà così che noi faremo lungo tutta l’Europa, ovunque passeremo con la nostra marcia”.

UNA RETE DI MIGRANTI
Marcia che, come spiega Diallo all’assemblea riunita in piazza Madama Cristina, “è stata organizzata con l’obiettivo di creare una rete di immigrati di tutti i paesi europei” a cui, attraverso l’esempio di quanto avviene in Francia, si intende dare coraggio affinché facciano sentire la propria voce. Spiega Diallo come, nel 1988 “la Francia era come l’Italia di oggi. E’ stato attuando le occupazioni che abbiamo iniziato ad organizzarci. Abbiamo occupato, siamo stati picchiati, alcuni sono morti, ma abbiamo insistito con la lotta. Ho imparato in tanti anni che è importante stare sulla strada, solo così si può ottenere di far sentire la propria voce. Ogni settimana una nostra delegazione viene ricevuta in prefettura a Parigi a parlare di immigrazione”. Proprio qui a Torino i Sans Papiers hanno chiesto un incontro con il prefetto, a cui hanno domandato quali fossero “le regole precise in questa città, per ottenere la regolarizzazione. Non ha saputo o voluto rispondere a questa domanda. Ai politici bisogna chiedere - dice Diallo -, chiedere sempre: sono persone come noi, e non daranno nulla se non si protesta per ottenerlo”.




Loro, i Sans Papiers, hanno suole consumate, l'aria stanca. Hanno marciato lungo tutta l'Europa, mille chilometri in un mese, una media di 33 chilometri al giorno. A piedi. Loro, che hanno attraversato mari e deserti, a cui ogni giorno tocca marciare per ottenere qualsiasi diritto, hanno valicato i confini tra gli Stati "domandando ogni volta ufficialmente alle autorità l'autorizzazione a varcare le diverse frontiere senza documenti e quella di manifestare. Dove non abbiamo ricevuto risposte ufficiali, siamo comunque passati, ritenendo il silenzio come una tacita autorizzazione".



Libertà di circolazione e di residenza
per tutti
IPOCRISIA D’EUROPA E ATTIVAZIONE DI UN QUESTIONARIO
Per far questo si sono appellati alla “dichiarazione del 1948”, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art.14: ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni; art. 15: ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza; nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza - ndr) e rilevano come, nonostante ciò, l’ipocrisia regni sovrana in Europa: “Le politiche sono condotte, in ogni Stato, secondo leggi diverse ma con la dichiarazione esplicita dell’essere obbligati a rispettare le decisioni europee”. La marcia vuole denunciare queste incongruenze, e testimoniare le numerose contraddizioni che esistono nella legislazione dei paesi membri dell’Unione Europea. Questo problema è stato posto alla commissione europea il 2 giugno, alla partenza da Bruxelles. Sembrerebbe abbia prodotto come reazione un questionario on line, disponibile in rete proprio in questi giorni, dove tutti i cittadini europei sono invitati ad esprimersi su queste tematiche
Per partecipare al questionario:

“Quando arriveremo a Strasburgo vogliamo presentare ai deputati europei le nostre proposte per la libertà di circolazione e di residenza dei migranti e per la loro regolarizzazione secondo principi di equità e di ragionevolezza. Vogliamo che, grazie alla presenza della nostra marcia, la politica si interessi a questi problemi. Crediamo necessaria una soluzione – continua Diallo – secondo un principio di uguaglianza dei diritti e non secondo il disegno di un’Europa liberale dove noi non serviamo, dove non siamo persone. La libertà di circolazione non è solamente una questione dei diritti dell’uomo, ma anche di razionalità economica, noi crediamo”. Con la libertà di movimento il migrante, di qualsiasi nazionalità o colore sia, se trova lavoro si insedia, altrimenti riparte. Non resterebbe bloccato in un posto, come avviene ora, a disperdere le sue piccole economie, in una situazione sempre più precaria e dipendente e che non ha altro sbocco se non l’illegalità per la pura sopravvivenza. 

Il corteo attraversa il quartiere San Salvario
AIUTO ALLO SVILUPPO
Altra ipocrisia diventa evidente se solo ci si sofferma a discutere di cifre: le procedure di controllo e repressione hanno un costo molto alto. Anche il rimpatrio assistito, che dovrebbe rappresentare un “aiuto allo sviluppo” altro non è che una delle tante misure di allontanamento dal territorio nazionale: queste pratiche si sono rivelate molto più costose che non l’attuazione della libera circolazione. Il Gisti (www.gisti.org) centro europeo di documentazione sull’immigrazione, ha calcolato che l’espulsione di un clandestino dalla Ue costa in media 30 mila euro. Vengono quindi spesi in tutto, considerato il numero delle persone coinvolte, quasi un miliardo di euro per anno.

LA SITUAZIONE IN ITALIA
In Italia questa situazione è ulteriormente complicata, laddove rimpatrio significa espulsione e accoglienza centri dove le persone non hanno libertà di movimento. “L’emergenza sbarchi – sottolineano gli esponenti dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione: www.asgi.it) presenti in assemblea - è diventata un business: i Cara, dove le persone sono tenute in attesa di riconoscimento, costituiscono la prima voce di spesa del programma gestito dalla Protezione Civile. Per ogni allontanamento, per esempio, vengono pagati 5 biglietti aerei che comprendono andata e ritorno per i poliziotti che accompagnano. L’agenzia europea Frontex (per la gestione delle frontiere esterne - ndr) paga per ogni espulsione fatta dal governo 4 mila euro. Tutte le risorse sono di conseguenza investite su questo metodo, che però non funziona perché su 500 mila irregolari viene espulso solo lo 0,7% ogni anno. La gestione di questo problema viene considerata un’emergenza di ordine pubblico dal governo e non un problema di integrazione. Qui in Piemonte c’è stato il caso di Pracatinat, dove 100 persone sono state destinate ad un grande albergo di montagna in mezzo al nulla: un esempio che dimostra come i soldi vengano spesi non per integrare, ma per tenere sotto controllo. L’emergenza Libia ha fatto sì che venissero stipulate convenzioni con persone che non avevano alcuna referenza e conoscenza per accogliere i rifugiati”.

I rappresentanti dell'Asgi all'assemblea di piazza Madama Cristina, mercoledì 27 giugno

Che in Italia si lucri sulla situazione dei più disperati è stato denunciato più e più volte dalla Corte Europea per i Diritti Umani, nella fattispecie per le condizioni di privazione in cui richiedenti asilo e profughi vengono letteralmente detenuti e per la mancanza di politiche di integrazione di base, come il diritto ad avere un tetto e un modo per sostentarsi. Lo testimonia Ali, etiope, da quattro anni a Torino: “Non riesco a vivere la mia condizione di studente perché dormo sempre in un posto diverso. Non sono venuto dall’Etiopia per stare in Italia ma alla fine ho dovuto restare qua. Non posso aiutare la mia famiglia perché non c’è lavoro”. Ali vive in una casa occupata, dove la situazione di sovraffollamento è assolutamente preoccupante: si tratta di persone che hanno terminato il “contratto” che prevedeva il loro mantenimento a cura del Comune di Torino, per un anno soltanto, all’interno di comunità-alloggio grandi e piccole; o anche di richiedenti asilo cui è stata rigettata la domanda, che non possono tornare nel loro paese e vivono di fatto in condizione di clandestinità forzata.

LA LIBIA L’HANNO BOMBARDATA
Un altro profugo non riesce a trattenere la propria rabbia quando parla della sua situazione: “Io lavoravo in Libia. La guerra in Libia l’ha voluta l’Europa. Non ci fosse stata questa guerra noi non saremmo venuti qui. Inoltre la commissione che deve decidere il riconoscimento, ci chiede di dichiarare il nostro paese di provenienza. Ma noi eravamo in Libia, a lavorare. La Libia l’hanno bombardata e noi siamo scappati. In Libia stavamo bene. L’Italia ha le sue responsabilità: se la domanda di riconoscimento non viene accolta ci buttano per la strada. Cosa dovremmo fare? Forse vogliono che diventiamo delinquenti?”. A questo si aggiunge il problema dei bolli: se già prima era faticoso reperire il denaro necessario, ora questa cifra è stata portata, dal governo Monti, a ben 200 euro. Chi di loro potrà pagare? Senza permesso in regola, infatti, si può finire detenuti nei Cie, in attesa di essere identificati ed eventualmente rimpatriati. Rincara la dose la delegazione proveniente da Napoli, che porta con sé la testimonianza di un calciatore: “A Napoli sono stati stanziati 300 mila euro. Non è stato fatto niente per noi, non avevamo nemmeno i soldi per telefonare a casa. E questa è una grave mancanza di libertà. Quando ero calciatore in Libia, avevo un’idea diversa dell’Italia. Ora che sono qui me ne vergogno”. Con buona pace di Balotelli.

SOLIDARIETA’ ALLA VALLE DI SUSA
Loro, i sans papiers, hanno le suole consumate, l’aria stanca, ma continueranno la loro marcia fino in valle di Susa, da Avigliana a Bussoleno rigorosamente a piedi, lungo la statale 25, per venire direttamente a contatto con la popolazione coinvolta: “Noi – scrivono sul loro giornale - siamo qui anche per portare solidarietà alle realtà locali: in Italia quelle dei precari, degli studenti e dei No Tav. Noi, che siamo in presidio permanente, lo sappiamo bene: il sostegno e la solidarietà di altri gruppi aiuta sempre quando la lotta è in corso: prima di tutto per il morale, e poi per la visibilità dell’azione. Bisogna dire che una marcia è sovente occasione di mobilitazione, di partecipazione, a volte di rilancio di queste rivendicazioni. Camminare insieme è la nostra forma di lotta, pacifica e solidale”.

FRONTIERE MENTALI
In questo camminare, ci sono anche le donne. Sono importanti, poiché, come dice Valerie Motio Kamga, che rappresenta la Dominter, associazione di donne migranti internazionali: “ben più pericoloso è oggi l’attraversamento di altre frontiere che non sono terrestri ma mentali, sociali ed economiche”. Ha un sorriso gentile e scandisce bene ciò che ha da dire per farsi capire da tutti, francesi e italiani: “Durante tutta la nostra marcia, questa sarà la connotazione di frontiera, nel senso più complesso e profondo, che noi vogliamo mettere in risalto. 
Valerie Françoise Motio Kamba
Sono queste, infatti, le frontiere che la marcia vuole attraversare. Per ciò che è sorto, vive e perdura nel cuore dell’Europa politica: un dibattito effettivo sulle barriere opposte dagli Stati alla reale legalità degli uomini. Quando si dice no alle frontiere, bisogna anche avere il coraggio di negare le altre, quelle che abbiamo dentro: religiose, culturali e di genere”.

IL FUTURO
Queste sono le scommesse della marcia. Una manifestazione europea che, iniziata il 2 giugno da Bruxelles, non si concluderà il 2 luglio con il semplice arrivo presso il Parlamento Europeo a Strasburgo, ma si prolungherà verso un altro obiettivo, quello di “far diventare la coalizione internazionale dei Sans Papiers e migranti una struttura permanente a livello europeo, coinvolgendo tutti gli Stati: una vera e propria Internazionale capace di intervenire con la sua propria visione autonoma, nel dibattito dei movimenti del Forum sociale mondiale sulle alternative al capitalismo”.

una partecipante legge la pagina
economica di Le Monde
Assemblea in piazza Madama Cristina



















IL CORAGGIO: THOMAS SANKARA
E’ sempre Valerie che ricorda a tutti, a conclusione della affollata e molto partecipata assemblea nel cuore di San Salvario, la figura di Thomas Sankara, il giovane presidente del Burkina Fasu, assassinato il 15 ottobre del 1987 durante un colpo di Stato architettato con l’appoggio di Francia e Stati Uniti. Lui, che per le riforme applicate al suo piccolo e povero paese, veniva chiamato anche il Che Guevara d’Africa, diceva che “bisogna avere il coraggio di cominciare, il coraggio di ricominciare e il coraggio di continuare”. Tutt’intorno ragazzi in pettorina fermano le persone nella piazza e spiegano con pazienza, in francese, quali sono le ragioni della marcia. Qualche anziano e qualche straniero si avvicinano, qualcun'altro si ferma ad ascoltare. Ciò che manca è l’attenzione dei media, che è evidente e viene sottolineata ad ogni intervento. C’è ancora molto da fare, soprattutto qui in Italia.

FESTA FINALE
Intanto la manifestazione si concluderà stasera, domenica 1 luglio dalle ore 17, presso il parco del Valentino con musica, cibo, balli e, ovviamente lo schermo per seguire la partita.
Un’occasione per informarsi, incontrarsi, scambiare esperienze ma soprattutto ribadire che un altro mondo, e un’altra Europa, solidale e che tenga conto della diversità di tutti coloro che la abitano, è possibile.

La marcia europea dei sans papiers e dei migranti riprenderà il cammino per Strasburgo lunedì 2 luglio alle ore 7 del mattino con raduno davanti a Porta Nuova.
Per info:
http://ec.europa.eu/justice/opinion/your-rights-your-future/




Piazza Madama Cristina, mercoledì 27 giugno














martedì 19 giugno 2012

TRA DUE ANNI SIAMO A CASA

Viaggio tra gli abitati dei paesi distrutti a tre anni dal sisma che devastò L’Aquila




La Onna di ieri che si trova arrivando oggi ricorda in modo impressionante le vecchie immagini in bianco e nero di Berlino rasa al suolo dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. 

Onna, centro storico






Onna targa alla memoria
Sopravvivono in piedi la stazione, miracolosamente stretta tra fasce di ponteggi speciali, e la casa dove una lapide ricorda la fucilazione, avvenuta per mano nazista nel 1944 di venti abitanti innocenti, accusati di aiutare i partigiani: la targa è ora accuratamente protetta e il muro su cui è appoggiata è tenuto su da una doppia fila di tubi. Pare sia stato il governo tedesco a contribuire per far sì che proprio quella facciata, che era la scuola elementare del paese, rimanesse intatta a conservarne memoria








Onna, papaveri rossi
In mezzo alla rovina totale del centro storico, ai ruderi che iniziano ad essere colonizzati dalle erbacce, sopravvive un solo balcone: sul muro rimasto i papaveri rosseggiano al sole, unica viva presenza in quella totale devastazione. Dal tavolo in casa una tovaglia fiorata pende dimenticata, oggi come allora, un poco scivolata verso il pavimento. Ferma a catturare anche lei quel preciso istante, non un altro. Un solo, unico momento nella storia della gente, di coloro che l'hanno dovuta abbandonare di gran fretta.




Onna, vite scoperchiate




Onna, bagno





































 Se si gira l’angolo della via, però, un cartello in legno avvisa subito che quello che sta oltre è il villaggio messo su dalla Provincia di Trento e dalla sua protezione civile: casette in fila, colorate, tutte ad un piano soltanto. Lo fanno somigliare stranamente ad un centro per vacanze o ad un quartiere residenziale californiano: ogni villetta con la sua brava tettoia in legno e il medesimo pezzo di giardino, ben curato, sul davanti. Per entrare si passa davanti ad una piccola chiesa
 in legno, che somiglia più ad un gigantesco giocattolo, dove è sistemata anche la bacheca che illustra il progetto MAP (Moduli Abitativi Provvisori) di Onna. "Voluto e discusso da tutta la popolazione", si precisa più sotto. Il vecchio signore che si siede sulla panchina nella piccola piazza pulita e moderna, spiega di essere un imprenditore in pensione. Vive, dice, con la moglie in 48 metri quadri: “E’ difficile, sa? Siamo in due, avevo appena fatto allargare la nostra casa”. Poi guarda fiducioso oltre l'ingresso, là dove rimangono le macerie dell'abitato precedente e mi dice che “tanto fra due anni ci torniamo, a casa”.


E’ la stessa cosa che mi ripete un nonno che spinge il passeggino sul pianerottolo comune di una delle palazzine del progetto CASE (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) di Paganica Uno.

Paganica Uno, strada di accesso

La prima differenza che si nota tra Onna e Paganica Uno è che quest’ultimo è come un quartiere satellite. Mentre a Onna il nuovo villaggio è a pochi passi dal centro storico divorato dal sisma, Paganica dista invece dal suo ben 3 chilometri. Gli edifici, tutti rigorosamente di tre piani, ricordano le palafitte, poiché appoggiano su colonne che possono vibrare senza danni grazie ad un sistema di cuscinetti. Sopra questi basamenti, in due mesi soltanto, sono stati tirati su in fretta e furia tre piani di appartamenti "già arredati". Palazzine costruite, a vederle, senza seguire nessun criterio comune tranne quello dell'altezza e della forma a scatola: alcuni sono coperti di legno che lentamente si imbrunisce al sole di montagna; altri di solido e grigio cemento; alcuni audacemente colorati, altrove lasciati grezzi. Più o meno tutti uguali, bordeggiati dalle stesse file, deserte, di parcheggi. 






La gente si affaccia dai balconi, le porte si spalancano: “Venga su – dice una donna dal terzo piano – venga su che le faccio un caffè: da qui si vede un bel panorama”. Un bel panorama è da stentare a crederci, in quella desolazione di cemento. Ma le montagne d’Abruzzo circondano abbracciando e lasciano spazio allo sguardo. Da Paganica Uno si va via in fretta, appena il tempo di scambiare due parole con qualche anziano abitante per capire che anche qui sono tutti fiduciosi che questa sia una situazione precaria, che avrà fine prima o poi. Nessuno forse ha detto loro che invece proprio i progetti C.A.S.E. sono da considerarsi definitivi, e indistruttibili. 




Paganica Uno, progetto CASE
Quasi tutti gli abitanti dei C.A.S.E. sono in affitto, poiché anche prima del terremoto non erano proprietari di una loro abitazione. Pagano un canone che tutti definiscono  "simbolico". Molti di loro, per questo motivo, sono immigrati. “Sono gli stranieri che vivono le situazioni più difficili, perché non hanno alcuna rete familiare di sostegno”, dice il bravo sindaco di Barisciano, altro comune toccato dal terremoto, che ci accompagna. Ma i servizi, che pure erano stati promessi, non ci sono, o almeno non se ne vedono: non un bar, una farmacia, un negozio, un bancomat, un centro anziani, un’insegna: “Solo una navetta – dice una ragazza di colore che sta passando di fretta – due volte al giorno che va in centro”, dove però non è rimasto in piedi più niente.





Il centro storico di Paganica, dove sono rimaste solo macerie





Paganica

I pianerottoli del progetto Case
“Chi ha i problemi più grossi qui sono proprio le persone che avevano una vita sociale di un certo livello. Gli intellettuali. Le persone colte. Mentre all’inizio c’è stata una grande solidarietà e un senso di comunità che ci tenevano insieme, ora nessuno esce, la gente si sta lasciando andare – dice l’assessore provinciale de L’Aquila Fabrizio D’Alessandro -. La gente ha capito cosa significa perdere la casa”. Ma ciò che più colpisce è il segno della rassegnazione senza prospettive: “Ho 55 anni, abitavo a L’Aquila, nel centro storico. La mia casa non c’è più. Ora ho scelto di venire a stare in affitto qui, a Barisciano”. Chi parla è un uomo a passeggio coi suoi due cani, la mattina molto presto, dietro la scuola elementare costruita nuova di zecca: ha l’aria un po’ arruffata, la barba sfatta. “Ma tanto – dice aggiungendo un sorriso triste – mi manca poco da vivere, ancora”. 



Paganica centro storico
La prima ruspa



Un abitante di Paganica, dove la prima ruspa è arrivata da un mese soltanto, conferma come molti anziani siano annichiliti dalla perdita totale di punti di riferimento. E di come poi, passati ben tre anni dal sisma, ci siano ancora 160 persone in tutta la provincia che vivono in baracche abusive di legno, 180 coloro che sono - ora come allora - sistemati in albergo, sulla costa. 





La nuova chiesa dei Map di Onna




Parliamo di questi sfollati anche sulla porta della chiesa di Onna, dove un matrimonio sta per esser celebrato e  dove sui pochi banchi in legno vengono poste candide orchidee giganti. Il prete è molto indaffarato ma risponde gentilmente: “Un vero disastro: le famiglie stanno ancora insieme per miracolo. Vanno tutti avanti a forza di psicofarmaci”.




Un frate francescano con tanto di sandali e saio si appende alla corda di tre campane, recuperate dalla vecchia chiesa crollata e montate su di un trespolo dalla protezione civile trentina, che ha lasciato tanto di firma. Quella del Lazio ha invece voluto un solo messaggio all’ingresso della piccola e ben curata comunità di casette colorate, ognuna col proprio pezzo di giardino, il portico in legno davanti all’ingresso e lo stendino pieno di bucato ad asciugare: "Saremo sempre con voi", c'è scritto sulla pietra. 
I bambini passano in bicicletta, giocattoli in plastica colorata sono sparpagliati un po’ ovunque. Oggi è domenica. Con buona pace di tutti, naturalmente.




La piazza centrale del Map di Onna



San Martino del Carso

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti 
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore 
il paese più straziato


Giuseppe Ungaretti    














Sara Elter